mercoledì 30 giugno 2010

ANNIVERSARI DIMENTICATI: LA LIQUIDAZIONE DELL'IRI


DI ALDO BRACCIO
cpeurasia.eu

Accadde dieci anni fa : il 27 giugno del 2000 l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) venne messo in liquidazione, chiudendo ogni residuo di intervento pubblico volto ad assicurare una presenza attiva dello Stato nell’economia (1). Nato nel 1933, l’Istituto rappresentò al suo sorgere la risposta del governo italiano all’onda lunga della crisi finanziaria mondiale innestata dagli USA nel 1929 : contrariamente alle ricette liberiste cui siamo abituati, lo Stato di allora non finanziò con denaro pubblico le banche private speculatrici – lasciando al loro posto azionisti e manager – ma acquisì il controllo del 94 % della Comit e del Banco di Roma, e del 78 % del Credito Italiano. L’immenso patrimonio di partecipazioni industriali delle tre banche fu trasferito all’IRI, cioè allo Stato.

I fondatori dell’IRI – riconosceva un testimone insospettabile, Enrico Cuccia – erano persone “né disponibili, né utilizzabili se non avessero potuto operare al di fuori di qualsiasi interferenza da parte di interessi faziosi o estranei alla cosa pubblica” ; e l’Istituto, finanziando con prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato le sue imprese, divenne il promotore e il garante dell’interesse pubblico nello sviluppo produttivo, sottraendo alle banche speculative il controllo e il diritto di vita e di morte sull’economia reale.

Nel dopoguerra, L’IRI contribuì – pur tra gestioni e politiche spesso di tipo clientelare – a sviluppare le grandi infrastrutture e l’attività produttiva del Paese, a partire dal Piano Sinigaglia del 1948 a favore di una forte ripresa della siderurgia nazionale. L’energia a costi contenuti fornita dall’ENI di Mattei alimentava quella sorta di miracolo italiano in cui capitale privato e capitale di Stato operavano fianco a fianco:

grandi investimenti vi furono anche nel Meridione d’Italia, con la costruzione dell’Italsider di Taranto e dell’Alfa sud di Pomigliano d’Arco. L’IRI ha anche funzionato da ammortizzatore nella grande crisi industriale italiana (1975 – 1985) conseguente allo shock petrolifero dell’epoca.

A partire dagli anni Settanta, però, crebbe enormemente l’esposizione dell’IRI verso le banche : il famigerato indebitamento, destinato a strozzare questo ente pubblico, già tacciato di “assistenzialismo” e già additato come “carrozzone” asservito alla politica. L’Economist fece naturalmente la sua parte titolando nel 1981 “Fogne aperte” un suo articolo sulle aziende pubbliche italiane.

L’anno dopo, iniziò la ristrutturazione/demolizione dell’Istituto sotto la presidenza di Romano Prodi, e, da allora la svendita (privatizzazione) del sistema aziendale pubblico italiano divenne applaudita realtà. L’accordo Andreatta – Van Miert (rispettivamente ministro del Tesoro italiano e commissario europeo alla concorrenza) del luglio 19933 sanciva l’impegno di stabilizzare i debiti dell’IRI (così come dell’ENI e dell’ENEL), con l’inevitabile conseguente necessità di privatizzare urgentemente le aziende partecipate.

Nel giugno 2000, come ricordavamo all’inizio, la messa in liquidazione.

Con essa il tramonto definitivo (?) della funzione di responsabilità – di governo dell’economia – svolta dallo Stato, il cui ruolo è ormai diventato soltanto di surrogazione (di ruota di scorta) del settore privato : intervenire con il denaro pubblico per riparare gli errori, le contingenze negative e le mascalzonate compiute da alcuni imprenditori e tanti speculatori privati.

Aldo Braccio

lunedì 21 giugno 2010

Toglietemi tutto ma non la nutella


Marco Cedolin
L’Europa dei burocrati e dei banchieri ci ha tolto ogni ambizione di sovranità monetaria, attraverso l'euro e la BCE, ha sradicato qualsiasi parvenza di sovranità nazionale, “sovrascrivendo” la Costituzione per mezzo del Trattato di Lisbona e dal prossimo anno provvederà (come confermato dal ministro Tremonti ) perfino a redigere in prima persona le nostre manovre finanziarie.
Il tutto nel silenzio mediatico più assoluto e nell’acquiescenza generale, senza che nessuno si sia sentito in dovere di esprimere una critica, senza che qualcuno abbia ritenuto giusto palesare un qualche moto di ribellione per essere stato defraudato di quasi tutto quello che ci apparteneva. Senza che un solo elemento del folto gruppo di politici, giornalisti, economisti, intellettuali, filosofi ed opinionisti, che a vario titolo si abbuffano al baccanale offerto dal contribuente, sia stato pervaso da un moto di orgoglio che lo inducesse a spiegare a chi paga il desco, i termini della “svendita” a Bruxelles di un’intera nazione.
Ci è voluta la Nutella, perché rinascesse dalle ceneri l’italico orgoglio e si levassero in alto gli scudi nei confronti della UE....
E’ bastato infatti ventilare la sparizione della Nutella, in virtù di una nuova legge europea, come ha fatto a gran voce il vicepresidente del Gruppo Ferrero, Francesco Paolo Fulci, cogliendo l’oppotunità di un’ottima campagna pubblicitaria a costo zero, per fare insorgere politici come il ministro delle Politiche agricole Giancarlo Galan , il vice ministro Castelli e il presidente della regione Piemonte Roberto Cota, unitamente ad associazioni come la Coldiretti e l’Aidi (associazione industrie dolciarie italiane) ad intellettuali ed opinionisti assortiti, sostenuti da un gran numero di cittadini scatenati che si sono affrettati a costituire gruppi su facebook, volti a tutelare il prezioso nettare dalle grinfie della mannaia europea.

Quasi immediatamente la paura è però rientrata, dal momento che il Parlamento Ue ha bocciato la cosiddetta "etichettatura a semaforo", finalizzata a mettere in guardia i consumatori sulle quantità di grassi saturi, sale e zuccheri presenti nei prodotti, dietro la spinta delle lobbies legate alla grande industria dolciaria.
La Nutella è dunque salva e l’Europa non ce la porterà via, per quanto riguarda tutto il resto, si tratta di un furto senza scasso e non vale la pena di protestare, in fondo non si trattava di cose importanti.

venerdì 18 giugno 2010


Barbara No TAV
Da un po' di tempo a questa parte pare che i debiti pubblici delle singole nazioni siano un problema, per i cittadini? No, per i mercati finanziari.
La triade delle agenzie di rating, la Fitch, Standard & Poor's, Moody's (1) decidono chi colpire di volta in volta, il grido di battaglia è sempre lo stesso: Rischio default per....e segue il nome del paese da bersagliare, o meglio, al quale far poi indirizzare le amorevoli cure del Fondo Monetario Internazionale il quale come purtroppo esempi come l'Argentina e non solo insegnano chiede pegno per il disturbo, pegno che consiste nel sorbirsi prima il predicozzo su quanto si è “spendaccioni”, che non siamo capaci a tenere i conti e che le borse poi ne “soffrono” e la mano regolatrice del mercato non riesce a ripristinare l'ordine universale...perciò, dopo aver costretto tutti i paesi dell'euro all'ennesima cura dimagrante a base di tagli della spesa sociale (non armamenti od infrastrutture inutili, certi traffici devono essere garantiti alle lobbies) e privatizzazioni i cui risultati possono essere apprezzati ogni qual volta si ha bisogno di un servizio di qualunque tipo....

Dopo il saccheggio della Grecia (3) a suon di tagli ed aumenti di tasse, si è passati a Spagna, Portogallo (qui hanno anche cominciato pesanti privatizzazioni come in Italia nel 1992) , Italia, Francia, Germania, Romania, ultimo in ordine di tempo all'Ungheria e solo di ieri al Giappone.
Chissà come mai il colpo basso messo a segno quel week end di maggio 2010, il piano salva euro da 750 miliardi ha fatto brindare solo le Borse e non i cittadini (2), chissà se ai cittadini fosse stato chiesto di salvare l'euro “costi quel che costi” come ha dichiarato il commissario europeo agli affari economici e monetari, Olli Rehn, loro spese cosa avrebbero risposto, ma nella evoluta democrazia europea non è concesso dare parola ai cittadini.

Intanto, il diabolico piano rovina-nazioni del FMI, BCE, Banca dei Regolamenti Internazionali va avanti, hanno dimostrato come i politici di tutti i paesi europei siano incapaci di gestire la spesa ed oggi il Ministro Tremonti ha dato l'annuncio che questa sarà l'ultima finanziaria nazionale (4).

La stampa non ancora imbavagliata, dato che ancora è tanto libera, non ha pensato di approfondire e chiedersi chi ha preso questa decisione, quando e come intendono attuarla e soprattutto chi redigerà le future finanziare e con quali criteri. Il bavaglio è sempre stato lì, ben piazzato visto che i nomi dei manovratori raramente spuntano fuori, quando ne parlano questi vengono spesso descritti come i salvatori delle nazioni.
Barbara

Ringrazio Voci dalla Strada, Marco Cedolin, il blog Selvas.org e Informazione Scorretta
1. Links utili per capire l'oracolo delle agenzie di rating
Perché le agenzie di rating sono quotate?
Europa: in mano alla Mafia del rating
Agenzie di rating: un conflitto di interessi irrisolto

2. Marco Cedolin Le Borse brindano ma chi paga il vino

3. In Grecia i cattivi protestano

4. Qui riporto le dichiarazioni incollandole dall'Ansa, in caso sparisse il link relativo.

giovedì 17 giugno 2010

Il Ricatto


Marco Cedolin

Nel 1831 il presidente del consiglio francese Casimir Perier ammoniva gli agitatori: "gli operai sappiano che per il loro bene non vi sono altri rimedi che la pazienza e la rassegnazione".

L’Italia è davvero uno strano paese, se è possibile che l’ad della FIAT Sergio Marchionne, a capo di un’industria che da sempre costruisce profitti miliardari finanziandosi attraverso il denaro dei contribuenti, può permettersi il lusso di sostituire il governo ed i sindacati, imponendo pro domo sua, nuove regole in aperto contrasto con la legislazione in atto e con il contratto collettivo nazionale dei lavoratori.
Questo è infatti il senso del ricatto (perché di ricatto si tratta) attraverso il quale Marchionne ha minacciato la chiusura dello stabilimento FIAT di Pomigliano D’Arco, e il conseguente licenziamento dei 5000 lavoratori occupati in quella sede, se i lavoratori stessi non accetteranno di rinunciare ai diritti che la legge vigente attribuisce loro. Ostentando inusitata bonomia, Marchionne si dice disposto a “sacrificarsi”, rinunciando a delocalizzare in Serbia e in Polonia la produzione della merce automobile (destinata nei decenni a venire ad avere sempre meno mercato) e concentrandola invece in Italia, a patto che i lavoratori italiani siano disposti essi stessi a diventare di fatto operai serbi e polacchi....

Fulcro della nuova manovra messa in piedi dalla FIAT “di governo”, l’imposizione di 80 ore annue di lavoro straordinario pro capite obbligatorie (ma non sarebbe meglio lavorare di meno e lavorare tutti, un po’ come tentano difare alla Volkswagen?), il recupero produttivo delle fermate tecniche, anche se effettuate per causa di forza maggiore, la soppressione del diritto alla retribuzione nei giorni di malattia e del diritto di sciopero. Anche se per mantenere una parvenza di senso del pudore gli ultimi due punti non vengono ovviamente esplicitati letteralmente all’interno delle proposte, ma scientemente celati giocando con il senso della parola "assenteismo".
Di fronte alla “telefonata” che impone le condizioni per il riscatto di 5000 persone, la politica ed il mondo sindacale si manifestano pronti a “pagare” (come sempre con i “soldi” degli altri) ed a genuflettersi dinanzi a cotanta generosità ostentata da Marchionne, uomo disposto a grandi sacrifici per sostenere l’occupazione nel paese. L’unica voce contraria sembra al momento essere quella della FIOM, decisa a non sottoscrivere l’accordo, ma con tutta probabilità anche questa piccola difficoltà verrà presto ripianata, offrendo un “contentino” che non incida sui termini della questione, o più semplicemente facendo finta che la FIOM non esista, così come già è stato fatto con i diritti dei lavoratori italiani.
La ricetta Marchionne, basata sul ricatto occupazionale, è in fondo molto semplice e in sintonia con la crisi economica e finanziaria che (per un strana coincidenza) si rivela perfettamente funzionale a manovre di questo genere. Prima si distrugge il mondo del lavoro, attraverso la disoccupazione e la precarizzazione, poi si passa a riscuotere, imponendo nuove regole che rendono il lavoratore uno schiavo con sempre meno diritti.

L'uomo moderno è meno libero di un contadino preindustriale


Massimo Fini
Noi moderni, intesi come massa, siamo molto meno liberi dal punto di vista economico degli uomini dell'epoca preindustriale. Questo è l'effetto-paradosso dell'aver scelto un modello di sviluppo basato sulla "libera intrapresa" e la concorrenza. Nel Medioevo e nel Rinascimento europei la stragrande maggioranza della popolazione, il 90%, era formata da contadini e artigiani (il restante 10% erano nobili, feneant a vario titolo come i preti, un ridotto manipolo di mercanti che rischiavano in proprio e un 1% di mendichi, ma era mendico solo chi voleva esserlo, un po' come i clochard per scelta dei nostri giorni). Contadino o artigiano che fosse l'uomo preindustriale viveva del suo e sul suo. Il contadino quando dipendeva formalmente dal feudatario, non era cioè proprietario della terra ma la deteneva in un possesso secolare, pagava a costui una rendita ridicola come ammette anche Adam Smith che nota: “Coloro che coltivavano la terra... pagavano una rendita che non aveva alcun rapporto di equivalenza con la sussistenza che la terra forniva loro. Una corona, una mezza corona, una pecora, un agnello erano, pochi anni fa, nelle Highlands, una rendita ordinaria per delle terre che mantenevano una famiglia” (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, III, IV). C'erano poi le corvées che a noi moderni abituati, almeno concettualmente, alle libertà individuali, fanno molta impressione perché consistevano in servigi personali che i contadini, un paio di giorni al mese, a rotazione, dovevano rendere al feudatario (aggiungersi ai domestici se dava una festa, dava una mano per qualche altra incombenza, e cose simili). Pagato questo scotto molto relativo....
(soprattutto se paragonato alle tasse che noi oggi versiamo allo Stato: fra rendita del feudatario, imposte reali, decima ecclesiastica, il prelievo non superò mai il 4-5%) la sussistenza del contadino dipendeva da lui e solo da lui e dalla sua famiglia. Ma, a parte la fatica (“la terra è bassa” dicono i contadini), da questo punto di vista non aveva problemi perché, come scrive lo storico Giuseppe Felloni in Profilo di storia economica dell'Europa dal Medioevo all'età contemporanea (Giappichelli, p. 107): “Le terre sono distribuite con criteri che antepongono l'equità distributiva all'efficienza economica, mentre quelle per loro natura inadatte alla coltivazione (boschi, pascoli, paludi eccetera) sono usate promiscuamente da tutti, ma entro limiti ben precisi... le terre... per consentire il libero accesso di quanti usufruiscono degli usi civici (vale a dire delle numerose servitù, di spigolatura, di pascolo, di acquatico, di legnatico e via dicendo , che gravano sulla proprietà e sul possesso privati senza peraltro metterli in discussione – era un regime "comunitario" non "comunista" della terra, ndr) devono essere lasciate aperte, senza barriere confinarie”. La concezione di fondo era che ad ogni nucleo familiare doveva essere garantito il suo "spazio vitale". Che valeva anche per il mondo artigiano. Se si prendono gli Statuti artigiani dell'epoca si leggono prescrizioni per noi, oggi, inconcepibili: “Non togliere agli altri alcuno dei suoi clienti”; “nessuno deve allontanare i clienti dal negozio del vicino né distoglierli dall'acquisto con cenni o gesti o altri segni”. Insomma era proibita la concorrenza, stella polare del nostro di mondo. Dirà il lettore moderno: ma allora l'artigiano poteva produrre oggetti scadenti sicuro di cavarsela lo stesso. Non era così. Non fosse bastato – e bastava – l'orgoglio dell'artigiano di far uscire dalle proprie mani dei capo-lavori, ci pensavano gli stessi Statuti a stabilire, con prescrizioni minutissime, degli standard estremamente severi per garantire la qualità del prodotto. Stiamo parlando dell'economia di sussistenza (sostanzialmente; autoproduzione e autoconsumo) che è stata in vigore in Europa e nei Paesi del Terzo mondo finché l'irruzione del modello di sviluppo industriale non ha cambiato tutti i termini della questione. Per la verità non proprio tutti. Esiste anche oggi una casta, quella dei politici, che come i nobili dell'ancien régime, non lavorano, non pagano le tasse su una porzione enorme dei loro emolumenti (100 mila euro), hanno un diritto proprio. Per il resto la mentalità del mercante, il più obbrobrioso degli esseri, considerato da tutte le culture preindustriali, d'oriente e d'occidente, all'ultimo gradino della scala sociale, sotto gli schiavi, perché si è sempre ritenuto indegno di un uomo scambiare per denaro, l'ha avuta vinta. Si è nobilitato a "imprenditore". Noialtri tutti siamo diventati degli "schiavi salariati", come si esprime Nietzsche, la cui sussistenza dipende da chi ti fa lavorare (e lo dobbiamo anche ringraziare) e da congiunture economiche e finanziarie sofisticatissime e lontanissime sulle quali, in barba a tutte le balle sulla democrazia, non abbiamo nessun controllo né alcuna possibilità di incidere. Siamo completamente alla mercé altrui e di un meccanismo che è sfuggito di mano anche agli stessi apprendisti stregoni che pretendono di guidarlo e marcia ormai per conto suo.
Per impedire stragi umane eccessive e controproducenti (la forza-lavoro, cioè gli schiavi devono essere mantenuti in vita finché servono a qualcosa) gli Stati, dopo le dure lotte del XIX e del XX secolo, sono stati costretti a introdurre alcuni istituti: i sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione, eccetera. Per quelli che invece non servono più a nulla, i vecchi, c'è la pensione. Solo le astrazioni della Modernità, in combinazione con la smania codificatoria della borghesia per cui la legge deve entrare anche nelle vicende più private e intime dei rapporti umani, potevano inventarsi una cosa così crudele come la pensione. Da un giorno all'altro tu perdi il posto, per quanto modesto, che avevi nella società e vieni sbattuto nel magazzino dei ferrivecchi. E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo. Per cui al pensionato, per riempire in qualche modo il vuoto che si è venuto a creare nella sua vita, per "ammazzare il tempo" (ma in realtà è il tempo che ammazza lui) monta una sorta di ossessione, alla Bouvard e Pécuchet, di conoscenza onnivora: vuol leggere tutto, vedere tutto, impadronirsi di tecniche e scienze di cui non gli è mai importato nulla e, di fatto, continua a non importargli nulla. “Quest'anno mi sono fatto il Nepal”. Non è amore di conoscenza, è una nevrosi catalogato-ria da album di figurine di collezionisti bambini. È mettere una tacca sul coltello che ha perso il filo e non serve più. Non è un piacere, ma un dovere, una faticaccia consumata sui pullman dei tour operator specializzati nella "terza età" o su traghetti carontici più infernali di quelli dei boat people alimentati almeno dalla speranza, dove ogni tanto qualcuno si accascia e muore mentre gli altri, come nella Vergogna di Bergman si voltano dall'altra parte e fingono di non vedere. In età premoderna, preindustriale, preilluminista, preborghese non c'era una crasi così netta, così feroce, fra vita attiva e un riposo che somiglia troppo all'eterno riposo. Il capofamiglia, man mano che invecchiava, lasciava i lavori più pesanti e impegnativi ai membri giovani del gruppo, ma continuava ad aver-ne la guida e quindi conservava un ruolo e la sua vita un senso. Adesso che un modello che ha puntato tutto sull'economia, marginalizzando tutte le altre esigenze umane, sta fallendo anche e proprio sull'economia, ci si dà, in Europa, a smantellare il welfare, compreso l'istituto della pensione che verrà portata, si dice, a settant'anni, cioè ai limiti della vita visto che la media, per gli uomini, è di 78 anni. Alla luce di quello che abbiamo detto potrebbe essere un vantaggio. Se non fosse che, nella stragrande maggioranza dei casi, i vecchi (e la vecchiaia, a onta di altre balle che ci raccontano, comincia, oggi come sempre, a sessant'anni come sa, nel suo intimo, chiunque abbia compiuto questo fatidico compleanno) e anche coloro che ancora tali non sono, non reggono le vorticose accelerazioni che, per competere, la società moderna, con la sua sfavillante tecnologia, impone alla nostra esistenza. Per cui il nostro futuro è, più o meno, questo: o schiattare sul campo o languire, negli ultimissimi anni, in una noia e in una solitudine senza luce e senza speranza. En attendant Godot.

giovedì 10 giugno 2010

MASSACRO ISRAELIANO: OPERAZIONE STRATEGICA STUDIATA CAUSE ED EFFETI: IL PERCHE' DEL NUOVO MASSACRO ISRAELIANO



Né “errore” né “sbaglio” né “pazzia”: Operazione strategica studiata. Paralizzare la negoziazione con i palestinesi, destabilizzare la politica di Obama con il mondo musulmano, rompere la sua strategia “negoziatrice” in Medio Oriente, complicare l’alleanza strategica di Washington con la Turchia, motorizzare il fallimento delle negoziazioni diplomatiche sul programma nucleare iraniano all' ONU e accellerare un risultato militare USA-Israele contro l’Iran, Siria, Libano e Gaza, sono gli obiettivi centrali che hanno guidato l' operazione di sterminio militare di Israele contro la flotta internazionale solidale con Gaza.

Di Manuel Freytas

La stampa internazionale del sistema concorda in una valutazione: L’operazione militare d’Israele contro la Freedom Flotilla ha complicato la politica regionale della Casa Bianca su tre fronti: le negoziazioni di pace con i palestinesi, la relazione con gli alleati arabi, e l’alleanza strategica con la Turchia.
Questo nuovo scenario, irrigidisce e complica di più la difficile relazione del governo Obama con i falchi di Tel Aviv e alza qualsiasi tipo di speculazione sull' “obiettivo occulto” del nuovo sterminio militare israeliano che ha commosso il mondo.
Per gli esperti, nel decidere di attaccare la flotta solidale turca, i falchi del governo e dello stato maggiore israeliano non potevano ignorare né non considerare le ripercussioni e il rifiuto internazionale che avrebbe creato.

La brutalità dell’operazione militare ebraica, per nuda e cruda, non s'incastra come un atto “improvvisato” o un “errore” per nessun analista strategico. La maggior parte degli esperti militari (anche se non lo dicono pubblicamente) pensano che sia stata un' azione studiata e pianificata orientata verso obiettivi politici.

L’attacco, come primo emergente, ha obbligato gli USA a difendere e proteggere l’impunità dello Stato ebraico nell’ONU schierandosi nuovamente come il suo “protettore”.
In sintesi, la nuova operazione di sterminio militare israeliano complica , in primo luogo il fronte alleato arabo regionale (principalmente l’Egitto, Giordania e Arabia Saudita) che deve pronunciarsi ed adottare posizioni dure contro Israele mentre critica la Casa Bianca per la protezione dello stato ebraico.

A sua volta, l’attacco pregiudica e mette a rischio il rilancio del dialogo di pace o di “avvicinamento”- come lo hanno chiamato- tra i palestinesi e gli israeliani.
Su un terzo fronte, l’attacco israeliano ha turbato l’alleanza strategica degli USA con la Turchia (un alleato centrale di Washington nella regione) che negli ultimi mesi ha dato una svolta decisiva alleandosi con l’Iran in materia politica e programma nucleare.

E per concludere, questi tre fronti emergenti complicano la politica di avvicinamento con il mondo musulmano lanciata da Obama lo scorso anno, e indebolisce la strategia di indebolimento e di isolamento “democratico” dell’Iran attraverso alleanze con partner arabi della regione.

In breve, l’operazione israeliana ha paralizzato la negoziazione con i palestinesi, creando una frattura nella politica di “dialogo” di Obama in Medio Oriente, ha complicato l' alleanza strategica di Washington con la Turchia, ha obbligato la Casa Bianca a difendere le posizioni militariste e belliche dello Stato d’Israele nell’Onu.
Questa realtà strategica emergente dall’attacco contro la Flotilla è la prova inconfutabile che l’operazione è stata accuratamente montata per produrre questo effetto dai falchi del governo e dell’esercito israeliano.

L’interno della “lobby”
E nuovamente, l’azione militare israeliana si pone all' ”interno” che divide le acque tra i “duri” e i “moderati” della loggia imperiale sionista di Washington e Tel Aviv.
Dietro la pianificazione e l’esecuzione, ci sono, due posizioni divergenti di fronte all’Iran e il Medio Oriente (la questione strategica centrale), che divide l’ ”ala destra” della lobby (i falchi sionisti di USA e Israele) dell’ ”ala liberale” della lobby (Obama e i sionisti “progressisti” di Washington e Tel Aviv).

Mentre il “progressismo” imperiale che amministra la Casa Bianca con Obama lancia linee di “dialogo e negoziazione” in Medio Oriente, i falchi israeliani (con Netanyahu stabilisce una fine sintonia con i conservatori militaristi USA) avanzano nei loro piani di “ri-colonizzazione” e di espansione militarista contro il mondo musulmano.

Mentre la Casa Bianca di Obama sviluppa la sua strategia nell' isolare e sconfiggere l' Iran sul piano della “guerra diplomatica”, i falchi israeliani, in sintonia con la lobby ebraica conservatrice di Washington, avanzano nella loro decisione di “ri-colonizzare” i territori occupati e di lanciare operazioni militari contro l’Iran, Siria, Gaza e Libano, ed evitare che continui l'avanzamento di potere militare e nucleare di Teheran.

Lo sconto non è di fondo ma di “forma”. La lobby sionista liberale (con Obama) vuole approfondire le linee delle negoziazioni “multilaterali” in Medio Oriente, inclusa l’apertura di una linea diretta con il regime di Teheran e la conformazione di un fronte arabo alleato, per isolare i falchi “militaristi”, sia di Teheran che di Tel Aviv.

Iran nell’orologio dei falchi
Ma questo “obiettivo” dell’ala “progressista” ebraica-nordamericana si trova di fronte ad un problema centrale: La clessidra con l'Iran funziona in modo diverso per i falchi di Washington (destra conservatrice del Pentagono e del Complesso militare Industriale) e per i “destrosi” di Tel Aviv (Netanyahu e i falchi militaristi israeliani).

Per i falchi di Tel Aviv e di Washington, lo sviluppo del potere economico- nucleare- militare dell’Iran è direttamente proporzionale ad una minaccia all’esistenza dello Stato d’Israele e alla sopravvivenza degli interessi capitalisti- imperialisti-militari degli USA e l’asse sionista nella regione del Medio Oriente ed in tutto il pianeta.

Per i falchi di Tel Aviv e del Pentagono, Barack Obama è un “infiltrato comunista” quello che protegge Al Qaeda e negozia con i terroristi islamici, secondo una sintesi dei "dossier" cospirativi che circolano negli uffici dei repubblicani e dell’ultra destra conservatrice sionista degli USA.

Questi stessi “dossier” nutrono il pensiero e l’azione dei falchi israeliani che chiudono le file con il governo di Ntanyahu.
Dall’inizio dell’anno, alti funzionari e capi militari ebraico-americani alimentano una nuova scalata bellica con le loro dichiarazioni su un possibile attacco di Israele come risposta agli avanzamenti dichiarati dal governo dell' Iran nel suo programma nucleare.

Attraverso costanti avvertimenti, lo stato maggiore militare israeliano lancia chiari segnali della sua disponibilità a lanciare un “fatto compiuto” (operazioni simultanee e sincronizzate) contro l’asse Iran, Siria- Libano- Gaza, per coinvolgere Washington nel conflitto.

Sul terreno tattico (e mentre si ritarda l'esito militare con le negoziazioni ferme sul fronte diplomatico) l' Iran e l’asse sionista USA-Israele si preparano ad una meta essenziale: Potenziare la loro difesa e coprire tutti i punti deboli di fronte ad operazioni di attacco e di contrattacco aereo con missili che potrebbero coinvolgere la Siria, Libano e Gaza.

L’ipotesi della “tripla guerra”- come segnalano gli esperti- si trova già nel simulatore dei falchi ebraico-statunitensi, mentre si consumano e si complicano le negoziazioni sul fronte diplomatico con un nuovo rifiuto di Teheran all’ultima proposta nucleare degli USA e delle potenze.

Destabilizzare la politica falsamente “dialogica” di Obama con il mondo musulmano, rompere la sua strategia “negoziatrice” in Medio Oriente, accellerare il fallimento delle negoziazioni diplomatiche sul programma nucleare iraniano all’ ONU e velocizzare lo svolgimento militare USA-Israele contro l’Iran, Siria e Libano e Gaza, sono gli obiettivi centrali che hanno guidato l’operazione di sterminio militare di Israele contro la Freedom Flotilla.

mercoledì 9 giugno 2010

Che cosa accade in Louisiana?


Che il disastro ambientale causato dalla fuga di petrolio si rivelerà molto più grave del previsto, ormai lo hanno capito tutti.

Quello che resta da chiarire è di quanto sarà più grave, questo danno. “Solo” del doppio o del triplo, o stiamo forse parlando di una diversa magnitudine, cioè di una dimensione dei danni talmente catastrofica da non poterla nemmeno inquadrare in una qualunque “proiezione negativa”, per quanto accurata e pessimistica possa essere?

Di una cosa, per ora, possiamo essere certi: il silenzio mediatico su quello che davvero sta accadendo in Louisiana è totale, e questo purtoppo è un pessimo segno.

Già lo si comprendeva dalla fumosa solerzia con cui ogni sera i network americani si affannano a fingere di “tenerci aggiornati su quanto accade”, senza in realtà aggiungere nulla di nuovo a quanto già sappiamo: il petrolio continua ad uscire, la “campana” installata di recente riesce al massimo ad acchiapparne il 20%, ed ormai anche l’ultimo dei creduloni ha capito che non si potrà fermarlo finchè il nuovo pozzo “parallelo”, destinato a rilevare la pressione dell’intero giacimento, sarà stato completato. Si tratta cioè di perforare almeno 20.000 piedi di fondale marino, e per ora siamo arrivati solo a 7.000.

Come dicono da quelle parti, you do the math. I calcoli fateli voi.

Ma le cose, a quanto pare, stanno ancora peggio di quanto si riesca ad immaginare. Ieri il documentarista James Fox (“Out of the Blue”), che si trova attualmente in Louisiana, ha telefonato ad una radio privata, rilasciando una testimonianza davvero allarmante. Questa è la sintesi:

“Siamo a circa 5-10 miglia da Grand Isle, che è considerata l’epicentro del disastro ecologico. Il cielo è pieno di elicotteri, la Chevron ha una intera flotta di elicotteri che vanno e vengono. Qui si ha la chiara sensazione che a comandare siano le compagnie petrolifere, e non il governo americano. Lo spazio aereo è stato chiuso, e nessuno può sorvolare la zona per fare fotografie o riprese dall’alto. Tutti in giro portano dei distintivi, che sembrano indicare quelli che lavorano alle operazioni di bonifica. La gente evita il nostro sguardo. Ti senti osservato da ogni parte, ma appena guardi nella loro direzione abbassano gli occhi a terra, come se non volessero avere niente a che fare con te. Sono entrato in uno shop, ho ordinato qualcosa, e ho cercato di scambiare due parole con i presenti.

Alla fine ho fatto amicizia con due ragazzini, il cui padre sta lavorando alle operazioni di bonifica, e uno di loro mi ha detto “C’è sotto molto di più di quello che si vede da fuori, in questa faccenda del petrolio. I media non riportano nemmeno un decimo di quello che succede davvero”. Pare che chiunque si aggiri con macchine fotografiche o cineprese venga immediatamente arrestato, e che la stessa sorte attenda anche chi si azzardi solamente a farsi intervistare da un qualunque reporter. La gente qui sembra letteralmente pietrificata dalla paura”.

Faccio notare che proprio qualche ore prima, guardando la TV, mi ero reso conto della completa mancanza di interviste agli abitanti della zona: si sentono parlare i vari personaggi della guardia costiera, i sindaci delle città e i governatori delle contee, e ogni tanto si fa vivo persino qualcuno della BP. Ma degli abitanti della zona nemmeno l’ombra, è come se la zona fosse disabitata. E ora che abbiamo sentito James Fox, ne sappiamo il motivo.

Che cosa nasconde questo completo black-out mediatico?

Prima di chiudere, Fox ha detto che in mattinata avrebbe cercato di raccogliere altre informazioni dagli abitanti locali, anche se la loro reticenza a parlare è talmente vistosa che non era certo di riuscire a saperne qualcosa di più.

Se ci saranno novità da parte sua aggiorneremo l’articolo.

Massimo Mazzucco

martedì 8 giugno 2010

Israele: terrorismo di Stato


di Gianni Lannes

Italia Terra Nostra condanna senz’appello lo stragismo del governo israeliano ai danni dei pacifisti imbarcati sulla Freedom Flotilla (la nostra amica Monia Benini per fortuna è salva). Il messaggio è chiaro: morte certa a chi tenta di portare aiuti umanitari ai Palestinesi reclusi a Gaza. I sionisti hanno trasformato la Palestina in un lager. Una precisazione: noi occidentali siamo sempre ciechi e sordi dinanzi alle mattanze di civili dell’altro mondo. Da oltre 60 anni il braccio armato di Israele commette impunemente stragi. Ne sa più di qualcosa l’Italia, dove gli 007 di Tel Aviv godono di impunità istituzionale, complici i governi e l’intelligence di “casa nostra”, almeno dal 1949. Il campionario è ampio: dal traffico internazionale di armi ad Argo 16, dall’assassinio a Roma dell’intellettuale palestinese Wael Zwaiter (ordinato da Golda Meir), al sabotaggio della motonave Lino, compresa la strage di Ustica. E che dire del rapimento Vanunu, il tecnico reo di aver rivelato l’armamentario atomico: 300 bombe nucleari; e più recentemente 4 sommergibili a propulsione ed armamento atomico forniti dalla Germania? La presenza inquietante che avanza è il modello militarista, vale a dire il potere crescente della macchina bellica senza controllo pubblico (un mix di gerarchia, affarismo, populismo) ad ogni latitudine del globo. Le crisi finanziarie sono un corollario pilotato dalle solite cosche economiche. Il potere in divisa è fondato sul monopolio della forza e la diffusione ad oltranza della “democrazia” vigilata e condizionata dagli Usa. Le caste con le stellette stanno accrescendo sempre più il loro potere, influenzando ogni giorno le scelte politiche. La sovranità popolare è sempre più erosa. Altro che colpo di Stato. Attualmente le democrazie rappresentative corrono il rischio di un mantenimento solo apparente di forme democratiche che coprono la sostanza oligarchica. Come è noto Eisenhower, presidente uscente e militare di carriera lasciava la carica presidenziale mettendo in guardia i concittadini dal potere militare-industriale, che avrebbe potuto insidiare la democrazia Usa. Domanda cruciale. Di fronte al continuo saccheggio del terzo mondo, all’inquinamento planetario, all’esaurirsi delle risorse vitali (in primis l’acqua), come impedire che il sistema “democratico” ceda il passo a quello autoritario? La libertà di informazione è vitale e va difesa concretamente. Ricerca, selezione e analisi sono vitali per il giornalismo investigativo. Pochi si sono accorti di quanto ha scritto il generale Carlo Jean (l’ufficiale a capo della Sogin che nel 2003 per incarico del governo Berlusconi voleva imporre alla Basilicata un deposito unico di scorie nucleari) sulla rivista Geopolitica: “Occorre smettere di considerare la pace come una specie di diritto acquisito, garantito dall’art. 11 della Costituzione, ma di fatto delegato ad altri. Occorre considerare le Forze Armate come strumenti di guerra anziché come mezzi indispensabili per qualsiasi pace possibile”. E infatti, l’Italia fa la guerra (Afghanistan, Iraq, ex Jugoslavia, eccetera) supina ai voleri Usa e e movimenta armi grazie alle banche e al Vaticano. Sia chiaro: i Palestinesi hanno diritto all’autoderminazione nella loro terra, ovvero la Palestina. E noi? Per dare un segnale potremmo boicottare sin d’ora le merci israeliane, ma soprattutto impedire ai rifiuti (in particolare radioattivi) di quel paese di sbarcare nello Stivale, favoriti dal Pecorella di turno al potere. Su la testa… ora e sempre.

NWO: dalla padella alla brace


Alba Canelli e Marco Cedolin
L'attacco finanziario alla Grecia, si è rivelato fin dall’inizio un attacco contro l'Europa, o meglio contro gli europei, portato da tutta una serie di potentati finanziari che aspirano ad ottenere un controllo sempre maggiore sull’intera area, di fatto sostituendosi ai vari governi nazionali, ormai in avanzata fase di smantellamento.
Tra le promesse ventilate e regolarmente disattese e l’insieme dei “sacrifici” imposti, tutto lascia pensare che questa crisi non sia un effetto collaterale di politiche economiche sbagliate, ma un mezzo molto ben studiato per il raggiungimento di altri obiettivi.
Al di là di quello che vogliono farci credere i leader politici, attraverso i media e le testimonianze di esperti ed economisti compiacenti, la crisi, come evento straordinario o calamità naturale del mondo finanziario non esiste. La situazione di estrema difficoltà in cui oggi tutti ci troviamo, altro non è se non una mistificazione creata con cura, una cospirazione ordita contro i governi nazionali europei, con lo scopo di tenerli a freno, controllarli e far accettare loro un Governo Economico sovranazionale.

Anche la rivendicazione del diritto di veto sui bilanci dei paesi membri di cui la Commissione di Bruxelles vuole insistentemente appropriarsi, dimostra ancora una volta come la sovranità dei popoli e delle nazioni sia messa seriamente in discussione e come la strada perseguita sia quella di una politica autoritaria lontana da qualunque concetto di democrazia e libertà.
La crisi finanziaria ha permesso a banche ed istituzioni finanziarie di ripianare i loro buchi di bilancio attraverso il denaro pubblico dei contribuenti ed ora queste stesse istituzioni minacciano di distruggere gli Stati che hanno contribuito al loro risanamento.

Chi può credere ancora che tutte queste manipolazioni per la destabilizzazione degli stati non obbediscano ad un programma nascosto?

Nel mese di marzo, rapidamente ha preso piede l'idea per la creazione di un Fondo Monetario Europeo " finalizzato a sostenere i paesi della zona euro e ad “aiutare” in futuro, stati come la Grecia in gravi difficoltà finanziarie".
Dopo soli 2 mesi il "futuro" è già qui, in quanto alla Grecia si sono aggiunti come pedine di un pericoloso domino, anche la Spagna, il Portogallo, l'Italia ed ultima in ordine di tempo l’Ungheria, pur essendo essa al di fuori della “zona euro”.
E sappiamo bene che nel linguaggio "tecnocratico" di Bruxelles il verbo "aiutare”, allorquando trattasi di paesi in crisi, come la Grecia, viene declinato in un vero e proprio vortice di misure drastiche, tagli dello stato sociale e del potere di acquisto delle famiglie, che producono come unica risultante la progressiva perdita della sovranità fiscale ed economica da parte dello stato che è oggetto dei soccorsi.
Siamo lanciati in una corsa verso un sistema autoritario e antisociale.

Il “salvataggio” della Grecia e più in generale degli stati europei, ha come unico scopo quello di unificare i bilanci dei paesi membri dell'UE, per disporre delle loro risorse e di fatto porre fine alla loro sovranità economica. Le disposizioni del trattato di Lisbona, che è entrato in vigore il 1° dicembre, offrono un ampio margine di manovra in questo senso, dimostrando come si sia spento l'ultimo anelito di una qualche forma d’indipendenza e sovranità degli stati europei.
L'Europa si è gettata nelle braccia del FMI, un'entità "globalista" che fin'ora si era in prevalenza occupata delle vacillanti economie del Terzo Mondo, e nonostante siano sotto gli occhi di tutti le devastanti conseguenze dei suoi piani di "adeguamento strutturale", i nostri burocrati hanno ritenuto giusto dare carta bianca a siffatta organizzazione.

L'indebitamento indotto da questo salvataggio è una falsa soluzione imposta dall'esterno per legarci ancora di più al governo del "Mercato" e alla sua dittatura. Non è difficile leggere i secondi fini che si celano dietro questa operazione, completamente disancorati da qualsiasi aspirazione di benessere per i popoli europei. Sembra che il rischio di un collasso sistemico sia il cuore del gioco che stanno giocando e occorre iniziare a domandarsi il perché.

Il caos monetario e l’integrazione fra entrambe le economie dei paesi che sorgono sulle sponde opposte dell’atlantico, rappresentano un vantaggio per tutti coloro che prosperano nel mondo oscuro del mercato azionario, anticipando il panico e la conseguente euforia per sfruttare in pieno ogni aspetto dell’intera operazione.
Giova ricordare che nell'economia di mercato come in natura: l'ordine nasce dal caos. Tutte le disastrose manovre destabilizzanti e non casuali a cui abbiamo assistito negli ultimi 2 anni non portano al disordine, bensì ad un ordine superiore, ed è questa l'interpretazione della crisi più corretta. Possiamo quindi aspettarci dopo il caos europeo di questi mesi, un Nuovo Ordine regionale con una nuova Europa guidata dagli Stati Uniti (o più avanti unificata ad essi), dalla BCE che forse sarà solo una filiale europea della Federal Reserve, sotto il controllo del FMI o con l'istituzione di un nuovo potere mondiale.

La situazione attuale, se osservata in prospettiva, si caratterizza per due tratti fondamentali che emergono, sia pure ancora in fase embrionale, in maniera abbastanza adamantina. La volontà di creare un’entità transnazionale, basata su un ristretto numero di soggetti, che sostituisca di fatto i governi nazionali e sia in grado di fare incetta delle risorse economiche e finanziarie esistenti. E l’intenzione di deprivare progressivamente il cittadino dei diritti, dei servizi sociali e delle disponibilità economiche di cui ha goduto negli ultimi decenni.
Questa operazione comporterà per forza di cose un mutamento radicale della società così come siamo abituati ad intenderla e determinerà di fatto la fine della visione del cittadino in qualità di consumatore dal quale suggere ricchezza. La popolazione, deprivata delle proprie risorse finanziarie, senza più tutele e ammortizzatori si troverà giocoforza estromessa dal bazar del consumo, avulsa dal contesto in cui era abituata a vivere.
I grandi poteri economici e finanziari, consci dell’impossibilità di perpetuare il “mito” della crescita infinita, continuando a produrre sempre maggiori profitti sull’asse produzione/consumo, salteranno a piè pari una parte dell’operazione, raccogliendo la ricchezza direttamente alla fonte, limitandosi ad “usare” il cittadino in qualità di servitore, costretto a “prostituirsi” di fronte a qualsiasi richiesta, a causa delle sue scarse disponibilità finanziarie, dettate dalla quasi assoluta mancanza di opportunità occupazionali.

E’ questo il futuro che attende l’Italia e L’Europa intera? E’ possibile eliminare i diritti e la capacità di reddito d’intere popolazioni, senza che chi muove i fili venga travolto dalla rabbia popolare? Sono prevedibili le reazioni di cittadini educati al consumo attraverso oltre mezzo secolo di orientamento del pensiero, posti di fronte all’impossibilità di consumare e vivere la vita così come sono stati abituati a concepirla? Può la repressione militare costituire un baluardo sufficiente a prevenire l’eventuale esplosione del caos e della violenza?
Si tratta naturalmente di domande retoriche alle quali oggi nessuno di noi può dare una risposta. Le uniche risposte possibili, sono quelle volte a tentare di evitare di sprofondare nel baratro che si sta aprendo dinanzi ai nostri piedi. Risposte che pongono l’accento su quanto sia necessario e urgente riorientare la costruzione europea. Rimettendo in discussione i trattati finora sottoscritti e soprattutto ripensando in profondità il ruolo della moneta unica e delle istituzioni private come la BCE.

Solo con una rinascita sociale e una democratizzazione dell'UE possiamo evitare l'implosione dell'Europa, recuperando ai popoli quel ruolo centrale che li affranca dall’essere tubo digerente della macchina del consumo, senza renderli supini servitori di un’elite di potere finanziario ed economico. Solo la conoscenza e la consapevolezza della realtà possono produrre una reazione apprezzabile che ci permetta di cambiare strada in tempo utile, sempre che di tempo utile ce ne sia ancora.

venerdì 4 giugno 2010

Criminali di guerra e di pace




Marco Cedolin
Durante la notte l’esercito israeliano ha assalito le navi della Freedom Flotilla, a bordo delle quali si trovavano circa 700 persone di 40 nazionalità diverse, intenzionate a portare a Gaza 10mila tonnellate di aiuti umanitari, tra cui cemento, medicine, generi alimentari, e altri beni fondamentali per la popolazione, costretta a vivere all’interno di quello che Israele ha reso un vero e proprio lager per la segregazione di massa.
Il convoglio pacifista è stato attaccato in acque internazionali dalle truppe speciali israeliane che a bordo di elicotteri e gommoni hanno abbordato le navi aprendo il fuoco e provocando una vera e propria carneficina, il cui bilancio provvisorio è di 19 morti e una trentina di feriti. I passeggeri sopravvissuti sono stati tratti in arresto e con tutta probabilità deportati in un campo di concentramento appositamente allestito in terra israeliana.

Anche di fronte a queste prime notizie confuse e frammentarie non può sicuramente sfuggire l’enormità di quanto accaduto e la gravità dell’ennesimo atto criminale, compiuto dall’esercito di uno stato ormai completamente al di fuori di ogni controllo, di ogni legalità e rispetto del diritto internazionale.
Il massacro di questa notte, portato nei confronti di pacifisti inermi è infatti solo l’ultimo atto di un corollario di genocidi, violenze, soprusi e assassini lungo decine di anni. Un corollario nel quale la vigliacca pratica degli omicidi mirati ha fatto il paio con una lunga serie di guerre preventive, fra le quali l’invasione del Libano nel 2006 e il genocidio dell’operazione Piombo Fuso nel 2009 sono le ultime in ordine di tempo.

Massacri di civili compiuti con l’ausilio di armi di distruzione di massa vietate dai trattati internazionali, sempre portati avanti con l’arroganza di chi è cosciente di poter vivere al di sopra delle leggi e senza alcun rispetto per la vita umana. Massacri e genocidi compiuti sempre rimanendo impuniti, grazie alla compiacenza degli organismi internazionali e alla complicità dei governi occidentali pronti a volgere altrove il proprio sguardo, ogni qualvolta come a Sabra e Chatila ce ne fosse la necessità. Massacri e genocidi perpetrati nascondendosi vigliaccamente dietro al fantomatico alibi di una “risposta al terrorismo” compiuta in maniera terrorista e criminale.

Non si sono ancora spenti gli echi dell’ultima carneficina di civili inermi, compiuta dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza durante l’operazione Piombo Fuso poco più di un anno fa e stigmatizzata perfino dagli “amici” dell’ONU all’interno del rapporto Goldstone e già una nuova tragedia prende corpo ed anima, entrando come acido all’interno delle coscienze.

Ammazzare a sangue freddo decine di attivisti umanitari intenzionati a portare aiuto ad una popolazione martoriata può avere un senso ed una giustificazione?Assassini, vigliacchi, criminali di guerra e di pace, che continueranno ad agire impuniti di fronte al mondo voltato sempre dalla parte sbagliata.
Forse dopo l’ultimo orrore della scorsa notte è giunto il momento di voltare il capo e guardarli fissi negli occhi, per mettere fine a questo orrore prima che sia troppo tardi.