giovedì 17 febbraio 2011

Bombe atomiche Usa in Italia


Gianni Lannes
Ordigni nucleari nordamericani -a centinaia- occultati in Italia da mezzo secolo e pronti all’uso, così come nel resto dell’Europa.
Lo scorso lunedì 7 febbraio, la Russia -governo e Duma- è tornata a chiedere agli USA di “far rientrare negli Stati Uniti le proprie armi nucleari e smantellare le infrastrutture costruite per loro nelle basi in territorio straniero”. Pochi lanci di agenzia, e nessuna attenzione da parte dei media italiani.
L’Europa, Italia in testa, continuano a non rendersi conto della quantità di bombe atomiche americane che hanno in pancia.
I Rapporti segreti del Pentagono, per quanto riguarda l’Italia, parlano chiaro: «La loro forza esplosiva distruggerebbe all’istante e completamente un’area equivalente alla metà della superficie geografica italiana, con un impatto distruttivo avvertibile in un’area equivalente a 10 volte le dimensioni della Penisola». Altro che nuove centrali per fornire energia e scorie prive a tutt’oggi di sicurezza o affondate nei mari della Penisola. «Si tratta di una presenza ignorata dal 60 per cento degli europei e da quasi il 70 per cento degli italiani». E’ il risultato di un sondaggio commissionato da Greenpeace a StratCom (Eurisko per l’Italia) nel 2006 e molto poco noto anche al tempo. Non è tutto: «Il 71,5 per cento degli italiani dice no alla presenza di testate nucleari in Europa e i due terzi degli europei che ospitano testate Nato la pensano allo stesso modo»......
Una volta informati della presenza di testate nucleari nel Belpaese, sei italiani su dieci si sono mostrati preoccupati. E a ragione.
L’ultimo rapporto in materia di Greenpeace “Ordigni nucleari Usa/Nato: sicuri?” delinea il rischio offerto da questi potenziali obiettivi di attacchi terroristici. Ogni testata è anche un impedimento a ulteriori riduzioni degli ordigni tattici in Russia e ai negoziati in corso in Iran sul disarmo nucleare. Lo studio dell’associazione ecologista sottolinea come, attraverso l’ammodernamento tecnologico in corso nella Nato, i sei Paesi che ospitano le armi atomiche possano rimuovere questa minaccia restituendo agli Usa le testate: la strada è già stata tracciata da Canada, Grecia, Danimarca e Islanda. “Il presidente degli Stati Uniti Obama può decidere l’impiego delle armi nucleari senza il permesso italiano”, commenta Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia. “Non è lontano uno scenario di guerra in Iran che preveda l’impiego di bombe B61, proprio quelle 480 presenti nelle basi europee. Questa complicità nella politica estera di un altro Paese, che ha rivisto la dottrina nucleare, postulando la possibilità di fare un primo “colpo” nucleare preventivo è inaccettabile. Il centinaio di testate nucleari che stanno a Ghedi Torre e Aviano devono tornare negli Usa”.
L’aveva ribadito anche Romano Prodi: “la strada da privilegiare è quella preventiva e diplomatica perché c’è la possibilità che dall’Italia possa essere sferrato un attacco nucleare contro l’Iran”. Dopo l’ultima revisione del Nuclear Posture Review del Pentagono, gli USA non escludono la possibilità di impiegare armi nucleari per prevenire un attacco nucleare imminente o potenziale o per evitare che altri paesi possano dotarsi di capacità nucleare militare.
La guerra atomica è, allo stato dei fatti, una minaccia reale. E i piloti statunitensi possono decollare con armamenti atomici dalla basi italiane senza che sia necessaria alcuna decisione del nostro governo.
Le atomiche di proprietà degli Stati Uniti d’America schierate in Italia complessivamente hanno una potenza distruttiva pari a 900 volte l’effetto prodotto sulle bombe sganciate alla fine della seconda guerra mondiale dagli Usa sul Giappone (Hiroshima e Nagasaki). «Gli ordigni in questione sarebbero le bombe B61, ordigni tattici affusolati adatti ad essere trasportati, fissati alle ali, dai cacciabombardieri; la loro potenza può variare da 0,3 a 170 chilotoni; quella della bomba sganciata su Hiroshima era di circa 15». E’ quanto si legge nell’interrogazione parlamentare di Mauro Bulgarelli (Verdi) indirizzata al ministro della Difesa il 17 febbraio 2005, a tutt’oggi senza alcuna risposta.
Ognuno di questi ordigni ha una capacità distruttiva fino a quindici volte quella di Hiroshima e messi insieme avrebbero la capacità di disintegrare in pochi attimi la vecchia Europa.
Come mai la situazione viene celata ai cittadini italiani che, nel 1987 con un referendum hanno espresso un rifiuto netto del nucleare? “L’Italia è un Paese a sovranità limitata”, argomenta l’ammiraglio (in pensione) Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camera, “in caso di incidente, non esiste alcun piano coordinato di emergenza tra autorità militari, protezione civile, prefettura ed enti locali. E’ del tutto evidente che ci troviamo di fronte a una grave lesione delle prerogative democratiche del Parlamento, che rimane all’oscuro di ciò che accade nelle basi e della natura degli accordi tra Italia e Usa”.
Secondo lo studio del Natural Resources Defence Council «La presenza di bombe nucleari a Ghedi Torre sarebbe relativamente recente e posteriore alla guerra fredda». Il campo di aviazione a capacità di offesa atomica più vicino al Ticino avrebbe infatti ricevuto a metà degli anni ’90 le testate in precedenza schierate a Rimini.
“La responsabilità operativa è passata dagli Stati Uniti all’Italia e gli ordigni sarebbero destinati a essere lanciati dai Tornado della 102a e della 154a squadriglia, appartenente al sesto stormo” spiega l’ammiraglio Accame. La presenza degli ordigni nucleari in Italia non è mai stata confermata ufficialmente se non in un’occasione, il 1 marzo 2005, dal sottosegretario alla Difesa Giuseppe Drago in risposta ad un’interpellanza urgente (2/01481) sottoscritta da 32 parlamentari. Drago aveva ammesso a denti stretti che «la presenza di armi nucleari in Europa, sul territorio di paesi alleati non detentori di ordigni nucleari, costituisce un aspetto essenziale del nuovo concetto strategico della NATO che assicura la copertura, ma anche il coinvolgimento dell’intera Alleanza, nel cosiddetto ombrello nucleare della NATO stessa».
Aviano è una struttura in territorio italiano che gode di un’ampia extraterritorialità, ma anche nell’aeroporto tricolore di Ghedi le regole non cambiano: i nostri militari non hanno potere decisionale sulle bombe nucleari. Oltretutto, nello Stivale, dai tempi della guerra fredda, quando decine di missili nucleari a lunga gittata stazionavano in Puglia, più precisamente sulla Murgia barese (poi smantellati dal presidente Kennedy) -all’insaputa dei comuni mortali- l’allarme atomico non è mai cessato. Ben due documenti dell’aviazione militare Usa (“U.S. Air Force in Europe”) siglati dai generali Worden e Farrell hanno sgretolato la barriera bellica che avvolge gli arsenali atomici in Europa.
I due elaborati militari rivelano che gli Usa mantengono nel Vecchio Continente un numero di ordigni nucleari notevolmente superiore a quello finora conosciuto. Tale decisione è stata presa nel novembre 2000 dal presidente Clinton (Directive/NSC-74) e ribadita nel 2005 dal successore Bush (Directive/NSC-75). Ben «480 bombe nucleari sono dislocate in otto basi aeree in sei Paesi europei della Nato: 150 in Germania, 110 in Gran Bretagna, 90 in Italia, 90 in Turchia, 20 in Belgio e 20 in Olanda». Nel 2006 -secondo qualificate fonti militari Usa- i 24 ordigni atomici che stazionavano in Grecia, sono stati trasferiti segretamente ad Aviano.
Gli ignari cittadini sono forse esposti a rischi? Come documentano i rapporti dell’U.S. Air Force, «vi sono crescenti problemi di sicurezza relativi alla conservazione di queste armi». L’aeronautica militare americana ammonisce che «la normale procedura può comportare il rischio di esplosioni nucleari accidentali se un fulmine, ad esempio, colpisse gli ordigni del tipo B61».
Per quale ragione di Stato i vari governi italiani non hanno informato l’opinione pubblica? Lo spiegamento delle armi nucleari Usa in Europa è regolato da una serie di accordi segreti, che i governi del Vecchio continente e l’Unione europea non hanno mai sottoposto ai rispettivi parlamenti. Quello che regola le armi nucleari Usa in Italia è lo ‘Stone Ax’: il piano ‘ascia di pietra’. Esso non solo dà agli Usa la possibilità di schierare armi nucleari sul nostro territorio, ma stabilisce il principio della doppia chiave, ossia prevede che una parte di queste armi possa essere usata dalle forze armate italiane una volta che gli Usa ne abbiano deciso l’impiego. A tal fine, documenta il rapporto occulto «piloti italiani vengono addestrati all’uso delle bombe nucleari nei poligoni di Capo Frasca (Oristano) e Maniago II (Pordenone)».
La conferma, seppure velata giunge da un addetto ai lavori. Nel 2005 il colonnello Nicola Lanza De Cristoforis, intervistato quando era comandante del 6° stormo di Ghedi, aveva rivelato: «Da qualche anno ci addestriamo soltanto in Sardegna e sono a conoscenza in parte di questi accordi intergovernativi segreti Italia-Usa». In tal modo, l’Italia, che fa parte con gli Usa del “Gruppo di pianificazione nucleare” della Nato, viola il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari che, all’articolo 2, stabilisce: «Ciascuno degli stati militarmente non-nucleari, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, direttamente o indirettamente».
Non è tutto: nell’aprile 1999 il governo italiano ha sottoscritto, senza sottoporlo al Parlamento, un accordo sulla “pianificazione nucleare collettiva” della Nato in cui si stabilisce che «l’Alleanza osserverà forze nucleari adeguate in Europa, con caratteristiche di flessibilità e capacità di sopravvivenza tali da essere percepite come un elemento credibile ed efficace nella strategia atlantica di prevenzione dei conflitti». Tale strategia, consistente nel «prevenire i conflitti» tenendo gli altri sotto mira con le proprie armi nucleari, fa propria la “Direttiva 60” promulgata nel 1997 dal presidente Clinton: essa stabilisce che «le armi nucleari non solo continuano a essere puntate su Russia e Cina, ma possono essere usate contro stati-canaglia e contro soggetti non-statali che minaccino gli Stati Uniti, le loro truppe all’estero e i loro alleati con armi di distruzione di massa, anche non nucleari».
Non ha dubbi Falco Accame: “L’Italia, che ha sempre giocato un ruolo positivo per il disarmo nucleare, deve intervenire in sede diplomatica per ricostruire un clima e una sensibilità politica favorevole al disarmo e alla non proliferazione atomica. L’Europa deve essere libera da armi nucleari. Senza il disarmo nucleare delle potenze atomiche attuali, sarà difficile perseguire la non proliferazione in Paesi come la Corea del Nord, l’Iran o il Giappone che si sentiranno legittimati a proseguire nella direzione sbagliata”.
Ai micidiali ordigni alati si sommano missili e ordigni nucleari nelle basi di Camp Derby (Toscana), a Longare (Veneto), e a Sigonella (Sicilia). Greenpeace chiede ai ministri della Difesa europei di concordare il rientro delle testate atomiche negli Stati Uniti. “La minaccia di un uso di armi nucleari tattiche per risolvere la crisi iraniana è all’orizzonte” segnala Pippo Onufrio “La necessità di riprendere il cammino interrotto del disarmo atomico è urgente e indifferibile. L’Italia deve tornare a giocare un ruolo attivo di pace”.
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CASSAZIONE A SOVRANITÀ LIMITATA
La Corte di Cassazione stabilisce che la magistratura italiana (i cittadini italiani) non ha voce in capitolo sugli ordigni nucleari presenti nel nostro territorio. Così è stata arrestata la causa intentata a Pordenone dai pacifisti sulle atomiche ad Aviano.
I due lanci Ansa risalenti a due anni fa, sono inequivocabili:
« (ANSA) – ROMA, 26 FEB 2009 – CASSAZIONE: BASE AVIANO, PACIFISTI NON POSSONO CONTESTARLA – Infatti, informa la maggiore agenzia giornalistica dell’ex giardino d’Europa – I pacifisti non possono contestare la presenza, sul suolo italiano, della base militare americana di Aviano (Pordenone). Lo sottolineano le Sezioni unite civili della Cassazione nella sentenza 4461, nella quale si dichiara il difetto di giurisdizione della magistratura italiana ad interferire nelle «iniziative volte a realizzare un apparato difensivo nell’interesse comune di due Stati (Stati Uniti e Italia), a tutela della rispettiva sicurezza e nel rispetto di obblighi convenzionalmente assunti». È stato così bocciato il ricorso presentato da alcuni pacifisti, dal comitato “Via le bombe” e dalla Procura del Tribunale di Pordenone».
Il successivo lancio d’agenzia attesta:
«CASSAZIONE: BASE AVIANO, PACIFISTI NON POSSONO CONTESTARLA. Senza successo i pacifisti friulani – le cui ragioni sono state patrocinate da Joachim Lau, l’avvocato che contro la Germania ha ottenuto in Cassazione il diritto al risarcimento per i deportati nei campi di lavoro nazisti – hanno sostenuto che le testate nucleari presenti nella base di Aviano rappresentano un crimine contro l’umanità per il rischio connesso ad eventuali incidenti nucleari. Negli ultimi 50 anni – hanno fatto presente i pacifisti – ci sarebbero stati cinque casi di rischio incidente che avrebbero potuto coinvolgere la zona di Pordenone. Il primo nel 1960, l’ultimo nel 1995. Per la Suprema Corte – si legge nella sentenza depositata oggi e relativa all’udienza svoltasi lo scorso 2 dicembre – la presenza di testate nucleari – «in forza di pregressi impegni sovranazionali obiettivamente preordinati al perseguimento di imprescindibili esigenze di sicurezza nazionale» – non è in «alcun modo assimilabile» ai crimini contro l’umanità. Agli Stati Uniti deve essere pertanto riconosciuta – come previsto dal trattato Nato firmato a Londra nel giugno 1951 e ratificato dall’Italia nel 1955 – l’immunità statale che non «trova deroga» nemmeno ‘in presenza di attività idonee a ledere o porre in pericolo di vita l’incolumità o la salute dei cittadini dello stato ospitante’ la base straniera».
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US NUCLEAR WEAPONS
Tutte quelle trasferite in Europa sono bombe tattiche B-61, a caduta, in tre versioni (B61-3, B61-4 e B61-10), la cui potenza va da 45 a 300 chilotoni. Le bombe, lunghe 3,5 metri con un peso di 320 chilogrammi, sono tenute in particolari hangar, insieme ai caccia F-15 ed F-16 statunitensi, che dispongono complessivamente di 300 bombe; F-16 e Tornado dei Paesi europei della Nato, che hanno a disposizione complessivamente 180 bombe. Tra questi i Tornado italiani -dislocati attualmente in Afghanistan- che sono armati con 40 bombe (a Ghedi Torre).
Dai risultati di una ricerca condotta dall’associazione ambientalista statunitense Natural Resource Defence Council (NRDC) sulle armi atomiche americane in Europa (Us Nuclear Weapons in Europe) -mai smentita dal governo Usa- emerge un quadro molto diverso da quello che anche in Italia i responsabili della Difesa hanno tentato di avvalorare. Nelle basi di Aviano e Ghedi le bombe sono sotto custodia americana ma, mentre ad Aviano si tratta di ordigni che i piani militari assegnano, in caso di conflitto, ad aerei da caccia degli Usa, gli ordigni nucleari presenti nei depositi di Ghedi sono invece assegnate ad aerei italiani Pa-200 Tornado, con la conseguente necessità di addestramento costante dei piloti italiani nell’eventualità bellica che il presidente americano ordini il loro utilizzo. Secondo il suddetto rapporto «questo contraddice le regole di non proliferazione che Stati uniti ed Europa cercano di imporre ad altri Paesi». La presenza di ordigni bellici nucleari si configura come una violazione della legislazione italiana, che inibisce la presenza e l’uso del nucleare nel territorio nazionale; questa presenza e l’uso di armi nucleari in Europa sono regolati da accordi segreti fra i singoli Paesi e gli Usa; ciò che emerge alle 102 pagine del rapporto riguarda l’attuale assetto nucleare scelto dagli Usa per affrontare possibili scenari di crisi, con obiettivi nel Medio Oriente come Iran, Siria e anche Russia.
Il generale James Jones, comandante supremo delle forze Nato, ha sottolineato come «alcuni Paesi che mantengono sul loro territorio ordigni nucleari, e tra questi l’Italia, insistono per mantenere questa presenza»; ciò perché, secondo il rapporto, consente loro di mantenere influenza nell’ambito dell’alleanza.
La base di Ghedi è l’unica a livello europeo nella quale gli hangar che proteggono l’arsenale atomico sono pieni al 90 per cento della capacità teorica, contro una media delle altri basi del 50 per cento. Al Sesto Stormo dell’Aeronautica militare italiana di stanza nella base di Ghedi può essere assegnata una missione di attacco in caso di conflitto nucleare. «Negli ultimi 5 anni», rivela il rapporto Us Nuclear Weapons in Europe «esperti americani hanno compiuto un intervento discreto su tutte le testate atomiche in Europa, per renderli più agevoli da controllare e più stabili durante il trasporto sui bombardieri, spostandole dalle aviorimesse e smontandole per la manutenzione».
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SITE PLUTO (LONGARE, VICENZA)
Top secret le finalità dei lavori avviati nel 2007 nella base di Longare, l’ex ‘Pluto Site’ utilizzato per l’immagazzinamento di mine e testate nucleari per i missili a corto raggio dell’US Army. Nelle profonde gallerie della base sarebbero stati ammodernati e riattivati i depositi di stoccaggio armi, munizioni e attrezzature della 173^ Brigata Aviotrasportata e dei reparti che saranno utilizzati in ambito AFRICOM, il Comando USA per le operazioni nel continente africano di recente costituzione.
Secondo il MILCON (Military Construction) , 350.000 dollari del budget 2008 sono stati spesi per “allargare, allungare e riparare le strade, i marciapiedi e i sentieri di Longare, e per installare nuove fognature, linee elettriche e impianti d’illuminazione”.
Dal dicembre 2008 l’Unità statunitense della Riserva di stanza a Longare è stata posta agli ordini del 7° Civil Support Command dell’US Army con base in Germania, l’unico presente fuori dagli Stati Uniti d’America, responsabile della gestione degli affari civili delle forze terrestri USA in Europa. Alla vigilia dell’attivazione del Civil Support Team di Longare, i militari ad esso assegnati hanno condotto una controversa esercitazione di 76 giorni nel poligono di Fort Leonard Wood (Missouri) simulando uno scenario realistico di guerra chimica con l’uso di gas nervini. Successivamente il CVT di Longare ha avviato corsi basici per i residenti USA di Vicenza sulle armi nucleari, chimiche e batteriologice e sull’equipaggiamento personale di protezione.
Arianna Editrice

venerdì 7 gennaio 2011

Barilla: ombre belliche di un “made in Italy”


di Gianni Lannes

Il marchio italiano non è solo pasta e tarallucci del mulino bianco, bensì una “magica unione” di finanziatori ed alleati, soprattutto produttori di armi: ad esempio il micidiale cannone 20 millimetri (Oerlikon) adottato con furore da Hitler e in seguito dai dittatori di mezzo mondo. Anda-Bührle e Barilla: una saga di famiglie d’altri tempi. Generazioni e identità accomunate dal senso della produzione e vendita al miglior offerente, ingraziandosi il consenso popolare mediante pubblicità dilagante sui mass media. Occhio, non è tutta d’un pezzo la proprietà: la ditta parmigiana in attività dal 1877 non è quotata in borsa, ma vanta un socio storico imbarazzante. Per dirla con uno spot che addomestica le coscienze: “scopri il mondo di casa Barilla, iscriviti e diventa protagonista”. Detto e fatto: gratta… gratta vai a fondo. L’accordo della serie latina “pecunia non olet”, risale al passato remoto, appena sbianchettato.

Infatti, nell’anno 1979 Hortense Bührle (maritata Anda) – figlia del famigerato Emil Georg (al soldo di Hitler) e sorella del pregiudicato Dieter (responsabile della morte in Africa di milioni di innocenti, prevalentemente donne e bambini, come accertato dall’Onu) nonché madre dell’ingegnere Gratian – investe 10 milioni di dollari per acquistare il 15 per cento della nota marca emiliana. La Barilla è a caccia di denaro fresco: ha bisogno di iniezioni in moneta sonante senza andare troppo per il sottile. Hortense (nata il 18 maggio 1926, originaria di Ilsenburg am Harz, ma naturalizzata a Zurigo nel 1937) ha sposato nel 1964 il pianista Géza Anda. Nel 1969 la gentildonna ha un figlio di nome Gratian, che in seguito diviene ingegnere elettronico, nonché consulente di direzione della McKinsey. Secondo il Dizionario Storico della Svizzera (Historisches Lexikon der Schweiz, Band, 1, 322) la signora è a tutti gli effetti:

«Coerede e grande azionista del gruppo industriale Bührle, dal 1956 ha fatto parte dei consigli di amministrazione della Oerlikon-Bührle Holding AG, della Bally International AG e della Ihag Holding AG».

Chi sono i Bührle-(Anda)? Scomodiamo a tal proposito, tra le innumerevoli fonti informative ben documentate a disposizione, proprio uno studioso elvetico (mai smentito), ovvero Jean Ziegler che nel 1997 per la casa editrice Mondadori ha pubblicato il saggio, La Svizzera, l’oro e i morti. Alle pagine 175-179 si legge:

«I fabbricanti d’armi svizzeri furono particolarmente preziosi per Hitler. La Svizzera è leader mondiale nella meccanica di precisione: i congegni di puntamento dei cannoni svizzeri, la precisione delle mitragliatrici e dei mortai, i cannoni antiaereo a tiro rapido erano (e restano) i migliori del mondo. Hitler ne ordinò decine di migliaia; l’addestramento degli artiglieri – sia dell’esercito sia delle SS – destinati a manovrarli si svolse sotto la direzione svizzera. L’industria bellica elvetica presentava un ulteriore vantaggio: poiché produceva in territorio neutrale, non veniva bombardata dagli Alleati. La fabbrica di armi di gran lunga più potente del paese, che era anche una delle maggiori del mondo, apparteneva a un figlio di emigrati del Wurtemberg: Emil Bührle. Le sue officine erano situate soprattutto a Zurigo-Oerlikon.

I suoi affari con il Reich gli fruttarono guadagni considerevoli: tra il 1939 e il 1945 le sue entrate ufficiali passarono da 6,8 a 56 milioni di franchi svizzeri e il suo patrimonio personale da 8,5 a 170 milioni. Bührle era amico personale di Albert Speer, il ministro nazista degli armamenti e della produzione di guerra, nonché del barone von Bibra, un consigliere di legazione che fu forse l’intermediario più importante tra i dirigenti nazisti e gli industriali svizzeri. Bührle era un habitué delle cene offerte da Otto Carl Köcher, l’ambasciatore tedesco a Berna. A partire dall’estate del 1940 fino alla primavera del 1945, il gruppo Bührle fu quasi esclusivamente al servizio di Hitler. Nel 1941 offriva lavoro a 3761 persone, vale a dire tre volte di più che all’inizio della guerra. In origine, la Bührle-Oerlikon fabbricava macchine utensili, ma in seguito all’invasione della Polonia si riconvertì agli armamenti: nel 1940 le armi e le munizioni rappresentavano il 95 per cento di tutta la sua produzione.

Il punto forte del suo catalogo era il cannone antiaereo da 20 millimetri, molto apprezzato da Hitler, in quanto abbatteva un gran numero di aerei alleati. Bührle era il caratteristico padrone da lotta di classe; aveva orrore dei sindacati, in special modo del coraggioso leader sindacale e deputato di Zurigo Hans Oprecht (…) Per la cronaca, bisogna sapere che la vittoria spiacevolmente rapida degli Alleati impedì a Bührle di smaltire tutte le sue scorte di cannoni; molte delle forniture ordinate dai nazisti restarono a Oerlikon dopo il 1945. Tuttavia, anche dopo il suicidio del suo miglior cliente, Bührle seppe trovare una soluzione: cominciò a esportare le sue armi di morte nel Terzo Mondo. La guerra del Biafra durò dal 1967 al 1970 (…) Le Nazioni Unite decretarono il blocco economico e militare nei confronti del Biafra e la Svizzera aderì alla proibizione di esportare armi. La guerra fece due milioni di vittime, principalmente donne e bambini. Il Biafra capitolò e nelle sue caserme gli ispettori dell’Onu trovarono dozzine di cannoni Bührle. Alcuni recavano ancora la croce uncinata e i numeri di serie tedeschi: si trattava delle forniture Oerlikon, già pagate dai nazisti e pronte a essere loro consegnate, che Bührle aveva rivenduto a Ojukwu.

Per questo eccellente affare, Dieter Bührle – erede di suo padre Emil – fu condannato dal tribunale federale a una multa di 20.000 franchi svizzeri per non aver rispettato l’embargo (…) I fornitori svizzeri di Hitler facevano i loro affari in un ambito in cui i valori etici non avevano importanza».

Nel dopoguerra, la famiglia Bührle-Anda ha venduto armi a paesi sotto embargo e regimi notoriamente dittatoriali: Sudafrica, Nigeria, Indonesia, solo a citarne alcuni. Secondo il quotidiano spagnolo El Mundo, nel 1999 anche i bombardamenti con munizioni all’uranio impoverito (DU) in Kosovo, sono stati realizzati grazie alla produzione di questa benemerità famiglia elvetica di origini tedesche. L’European Network Against Arms Trade ha documentato con prove inequivocabili vendite di fucili d’assalto, razzi e missili contraerei all’Indonesia per 1,8 milioni di franchi svizzeri tra il 1982 e il 1993 attraverso la controllata Contraves, nonostante l’embargo in corso per violazione dei diritti civili. Sempre nel ‘93 grazie alle forti pressioni che la società bellica mise in atto per convincere il Parlamento Svizzero ad autorizzarle, furono venduti illegalmente armamenti per importi pari a 10 milioni di franchi. Nel 2000 il gruppo Oerlikon-Bührle si è inventato un nuovo profilo mutando il nome in Unaxis e diversificando gli investimenti in vari modi: ad esempio grazie ad un grazioso albergo sul fronte svizzero del Lago Maggiore. I Barilla, comunque, entrano personalmente in società con questi spietati mercanti di morte. Il denaro insanguinato che ha alimentato conflitti a danno degli esseri umani più inermi (senza valutare i defunti a causa della seconda guerra mondiale, solo in Biafra 2 milioni di vittime civili) – senza alcuna ombra di dubbio – è frutto della produzione e del traffico di armamenti in paesi in cui l’unica regola è la sopraffazione.

Le armi, come noto, sono strumento essenziale di tutte le forme peggiori del saccheggio globale moderno impastato di violenza. Nel 1999 il gruppo Bührle passa di fatto a Gratian Anda. Il 10 ottobre 2001 (e-mail delle ore 15:57:58, acquisita integralmente e legalmente dal giornale Italia Terra Nostra), un dirigente aziendale di rilievo, tale Armando Marchi scrive:

“Sono il responsabile delle Relazioni Esterne del gruppo Barilla.
Mi permetto di osservare che, se si eccettua il periodo dal 1973 al 1979 (in cui è stata di proprietà della multinazionale Grace), la Barilla è dal 1877, anno della sua fondazione,saldamente in mano alla famiglia Barilla, che ha sempre vissuto dei frutti del lavoro in campo alimentare.
Il signor Gratian Anda, che tra l’altro non è nel Consiglio di Amministrazione del Gruppo Barilla, rappresentava una quota di minoranza (il 15%) detenuta da una Società finanziaria olandese: un investitore meramente finanziario, non un’industria bellica.
Non abbiamo mai utilizzato la correttezza come strumento di marketing, e ritengo anche che non sia immeritata la trasparenza che ci viene riconosciuta dalla “Nuova Guida al consumo critico.”

Incongruenze o sgangherate menzogne dalle gambe corte? Il nipote di Emil George Bührle nel 2000 ha ricoperto la carica di vice presidente della Barilla; attualmente è consigliere di Barilla Iniziative S.r.l., anche se nel Bilancio 2009 il suo nome non si legge addirittura. Prove? A iosa. Il documento ufficiale di casa Barilla denominato “Corporate Governance” indica – nella società a responsabilità limitata Barilla Iniziative S.r.l. – tra i consiglieri, vicino ad Emanuela Barilla (sorella del presidente Guido Maria) proprio il convitato di pietra, detto altrimenti Gratian Anda (nato a Zurigo il 22 dicembre 1969), in buona compagnia degli inseparabili Nicolaus Issenmann e Robert Singer. Lo stesso Issenmann (per gli amici semplicemente Nico) siede accanto a Guido Maria Barilla nella società controllata dal Gruppo, meglio detta Lieken AG. Se Pietro Barilla pagava tangenti miliardarie sotto spinta di Silvio Berlusconi attingendo da conti segreti svizzeri, il figlio Guido Maria, attuale presidente del Gruppo forse non ha mai sfogliato un libro di storia contemporanea o una rivista di cronache. A lui il giornale Italia Terra Nostra ha chiesto chiarimenti che però latitano. Il rampollo è troppo indaffarato negli Usa? Appunto la morale di facciata, o meglio, fuori tempo limite che scomoda addirittura Kant. Meno male che il consiglio di amministrazione della Barilla – in “zona Cesarini”, si fa per dire – il 4 marzo 2005 ha recuperato terreno almeno sulla carta, approvando un Codice Etico di 24 cartelle.

Nel testo, a pagina 11 è inciso:

«Barilla considera come punti irrinunciabili nella definizione dei propri valori la Dichiarazione universale dei Diritti Umani dell’Onu».

Belle parole, o forse chiacchiere al vento, anzi fumo negli occhi degli ignari consumatori. Ma la sostanza? Magari un ravvedimento all’ultimo istante dei fratelli e sorella Barilla (Guido Maria, Luca, Paolo, Emanuela)? Nulla, per ora. Il dna parmense non tradisce il lauto business. Narrano le cronache del quotidiano Il Corriere della Sera (12 luglio 2008):

“La famiglia Barilla «premia» il socio svizzero Anda-Bührle. Accelera il riassetto del gruppo: più peso agli azionisti storici. La Finba Iniziative concentrerà altre attività e sarà partecipata all’ 85% da Barilla Holding e al 15% dagli elvetici. Riassetto al vertice del gruppo Barilla che dopo molti anni ridefinisce i rapporti con il socio di minoranza storico (15%), la famiglia svizzera Anda-Bührle, entrata alla fine degli anni Settanta. Le modifiche nella governance e nelle relazioni partecipative stanno entrando in questi giorni nella fase esecutiva con la fusione in Barilla G e R Fratelli, la capogruppo industriale, di quello che fino a ieri è stato il veicolo societario dell’ alleanza, la Relou Italia. Se i tempi saranno rispettati, già dalla settimana prossima la partnership dovrebbe trasferirsi nella nuova holding Finba Iniziative.

Tuttavia non è solo un’ operazione di facciata ma vi è la sostanza di un riassetto societario che accompagna una riorganizzazione industriale al termine della quale il 15% della famiglia Anda avrà più «peso». Nella nuova configurazione, infatti, rispetto al passato saranno concentrate sotto la società comune alcune attività che in precedenza erano fuori dall’ area di influenza degli svizzeri. Secondo una versione che circola in Barilla, si tratta di una specie di premio fedeltà dopo un periodo di turbolenza finanziaria dovuta alla fallimentare acquisizione della Kamps, il gruppo tedesco del pane.

Nel dicembre scorso si era conclusa consensualmente la burrascosa stagione di joint venture con la Banca Popolare di Lodi, entrata in Kamps a sostegno della Barilla subito dopo l’ Opa del 2002. La cessazione del contenzioso ha portato il gruppo della pasta al 100% di Kamps e Harry’ s (prodotti da forno) e contestualmente è stata delineata una nuova struttura di rapporti con gli Anda-Buhrle. Il passo successivo è stato, a marzo, l’ annuncio che le «bakeries» della Kamps, cioè la rete di oltre 900 negozi (quindi non il business del pane industriale), erano in vendita. Poi un mese fa la vendita di GranMilano alla Sammontana e ora sono partite le operazioni più prettamente finanziarie.

La prima è, appunto, la fusione «al contrario» di Relou in Barilla Fratelli. «Al contrario» perché Relou è socia al 49% di Barilla Fratelli che, lo ricordiamo, è la capofila industriale. E in questo modo viene di fatto smantellato il vecchio schema della partnership azionaria con i soci di minoranza. Il successivo step, che in questi giorni sta per essere messo a punto, è il contestuale trasferimento dell’ alleanza in una nuova finanziaria, la Finba Iniziative, che sarà dunque partecipata all’ 85% dalla Barilla Holding (100% famiglia) e al 15% dagli svizzeri. E qui, come aveva scritto «Il Sole 24 Ore» anticipando le linee della riorganizzazione, i due partner dovrebbero siglare un patto parasociale la cui principale materia da regolare sarà, quasi sicuramente, il meccanismo di prelazione sulle rispettive quote. Il gruppo emiliano, 18mila dipendenti, 64 stabilimenti in 11 Paesi, leader mondiale nel mercato della pasta e primo in Italia nei prodotti da forno (Mulino Bianco), ha chiuso il 2007 con 4,2 miliardi di euro di ricavi (+4,3%»)”.

Allora chi controlla realmente la Barilla? E’ in mano a industriali bellici? Nell’interrogazione parlamentare del 13 giugno 1985 (numero 3-00953) – focalizzata anche sulla Ferrero – dei senatori Bonazzi e Riva, indirizzata ai ministri del commercio con l’estero, dell’industria, del commercio e dell’artigianato e del tesoro, è scritto:

«Premesso: che il 71 per cento della Barilla G. e R. f.lli s.p.a. è posseduto da soggetti di nazionalità non italiana, e cioè per il 40 per cento dalla Financieringsmatschappy Relou N.V. di Amsterdam, per il 16 per cento dalla Pagra A.G. del Liechtenstein e per il 15 per cento dalla società svizzera Loranige S.A.; che 1’81,5 per cento della P. Ferrero e C.S.P.A. è pure posseduto da soggetti esteri, e cioè il 18,75 per cento dalla olandese Brioporte B.V. ed il 25 per cento, per ciascuna, dalle svizzere Nelgen A.G. e Creitanen A.G.; che diversi organi di stampa hanno dato notizia, non smentita, che le società estere che possiedono la maggioranza delle azioni delle due società farebbero capo a soggetti di nazionalità italiana, si chiede di sapere: se sia vero che le società estere che possiedono la maggioranza delle azioni della Barilla G. e R. f.lli s.p.a. e della Ferrero e C.S.P.A. fanno capo a soggetti di nazionalità italiana; come, in tal caso, è stato possibile realizzare tale situazione; se tutto questo sia compatibile con le vigenti norme valutarie e fiscali».

Scava e scava affiorano le maxi-tangenti di Pietro (padre di Guido Maria, Luca, Paolo, Emanuela), il caso Sme, il piduista Berlusconi Silvio (tessera gelliana numero 1816). E poi ancora il pregiudicato Cesare Previti, un esperto in materia di conflitto di interessi alla stregua del suo stesso padrone. Proprio il soldato Previti, relatore del disegno di legge di riforma che ha smantellato la legge 185 del 1990 (una norma che imponeva un controllo reale sul traffico di armi). Previti Cesare è stato anche il primo vice presidente dell’Alenia e ha continuato a sedere nel consiglio d’amministrazione dell’azienda bellica fino al 1994. In un altro libro, stra-documentato ed intitolato Mani Pulite, la vera storia, scritto dai colleghi Barbacetto, Gomez e Travaglio (Editori Riuniti, 2002), si rileva minuziosamente (pagg. 472-474):

«Allo scandalo Sme il pool arriva da solo, senza l’aiuto di Stefania Ariosto: indagando sui conti del finanziere Franco Ambrosio, e risalendo da questi ai conti di un imprenditore in affari con lui, Pietro Barilla (deceduto nel 1993, ndr) si imbatte nel conto zurighese usato da Barilla per pagare tangenti a Dc e Psi. Da quel conto il 2 maggio e il 26 luglio 1988, partono due bonifici di circa 800 milioni e 1 miliardo per l’avvocato Pacifico. Questi versa poi 200 milioni al giudice Verde, 850 a Previti e 100 a Squillante. Perché convocato dal pool, Guido Barilla, figlio del defunto Pietro, non sa spiegare perché mai suo padre avesse versato tutto quel denaro a due avvocati che non avevano mai lavorato per lui. Sembra una storia gemella dell’Imi-Sir (…)

Intanto l’uomo di Arcore invita a cena in un ristorante di Broni due degli inserzionisti pubblicitari più affezionati delle sue tv, Pietro Barilla e Michele Ferrero. E li convince seduta stante a costituirsi in una nuova società, la Iar, che si propone di rilevare la Sme al prezzo di 600 miliardi. La nuova offerta viene ufficializzata dai Barilla e Ferrero nell’ultimo giorno utile, il 25 maggio: il ministro delle Partecipazioni statali Clelio Darida si assenta dalla stanza dove sta per avvenire la firma del contratto Prodi-De Benedetti per ricevere, al telefono, l’improvviso rilancio (…) La Sme resterà all’Iri. Ma Barilla e Ferrero sono contenti ugualmente: il loro scopo era semplicemente quello di impedire a De Benedetti di dare vita a un colosso alimentare che probabilmente li avrebbe schiacciati. Missione compiuta anche per Silvio Berlusconi».

Sempre per masticare la pasta dei Barilla, ovvero “la pubblicità dei buoni sentimenti”, sfogliamo un altro testo dei medesimi autori (brutti e cattivi, sic!), titolato Mani Sporche (Chiare Lettere, 2007); a pagina 63 è attestato senza tema di smentite:

«Il 2 maggio Barilla bonifica 750 milioni a Pacifico, che li preleva in contanti e li porta in Italia. Mentre la Cassazione esce con la sentenza definitiva, Verde comincia a depositare decine e decine di milioni cash sul suo conto italiano. Il 26 luglio, due settimane dopo il verdetto di Cassazione Barilla – capocordata della Iar – riapre il rubinetto svizzero e accredita un’altra provvista, stavolta di 1 miliardo, a Pacifico. Il quale la suddivide fra Previti (850 milioni) e Squillante (100 milioni), stavolta per bonifico bancario, riservando a se stesso appena 50 milioni. Perché mai il socio di Berlusconi nell’affare Sme dovrebbe pagare un miliardo e 750 milioni a due avvocati di Berlusconi che neppure conosce e a un giudice di Roma, anch’egli a lui sconosciuto, se nella causa Sme fosse tutto regolare? (…) L’accusa non ha dubbi: corruzione in atti giudiziari per compravendere la sentenza Sme che consentì a Berlusconi di sconfiggere De Benedetti. Esattamente come avvenne poi nel 1991, con la sentenza Mondadori».

Dunque, soci ed alleati finanziari in realtà produttori e trafficanti di armi ed ordigni di primo livello. Nel 2002 la multinazionale alimentare italiana si è allargata al mercato tedesco acquistando, per un miliardo di euro, la Kamps, produttrice di pane e crackers. L’anno successivo ha comprato per 517 milioni, la Harrys, azienda francese dello stesso comparto. I soldi necessari alla Barilla sono stati elargiti dalla Banca Popolare di Lodi – attraverso cui passano transazioni finanziarie per la compravendita di armi anche a nazioni in guerra o prive di democrazia in barba alla legge 185/1990 s.m.i. (vedi:Relazioni al Parlamento italiano) – che ha costituito una nuova società, la Finba Bakery, e poi in marzo ha girato il 17 per cento della capitale della Finba a vecchie conoscenze della Barilla: tramite la solita finanziaria anonima, la Gafina, la quota è passata nelle mani della famiglia Anda-Bührle, presente nel capitale Barilla con una partecipazione del 15 per cento dal 1979.

Ecco la sorpresa. Nel Memorial Journal Officiel du Grand-Duché de Luxembourg (edizione del 4 maggio 2004 – C n° 469) riaffiora una società anonima: Bakery Equity S.A. (capitale sociale: di 337.139.060 euro, suddivisi in 33.713.906 azioni aventi un valore pari a 10 euro cadauna), costituita dinanzi al notaio Paul Frieders il 3 dicembre 2002. In qualità di amministratore spicca il faccendiere Gratian Anda accanto agli italiani Francesco Mazzone e Fabio La Bruna. L’oggetto principale è l’acquisizione e il controllo di interessi in Finbakery, Partner G, Finbakery Netherlands e Gibco. All’interno di questo calderone ribolle un minestrone finanziario: Barilla Holding (Parma), Finba Bakery Holding (Dusseldorf), Finbakery Netherlands (Amsterdam), Banca Popolare di Lodi (Lodi), Finbakery Europe (Dusseldorf), Gafina (Rotterdam), Gibco o più dettagliatamente Lombok Limited (Gibilterra, un paradiso fiscale), Harrys, Kamps, Ramisa (Convention principale d’investissement et d’actionnariat reformulée et amendée, siglata il 4 novembre 2002 da Bpl, Azionariato industriale e Barilla Holdind S.p.a.), Dutch Foundation (Stichting Bakery Finance di Amsterdam), Finba Luxembourg. In Bakery Equity Luxembourg S.A. figura anche una vecchia conoscenza di casa Barilla (attuale consigliere di Barilla G. e R. Figli S.p.A. nonché Lieken AG) Nicolaus Issenmann (nato a Zurigo il 6 maggio 1950). Ovvio, non è tutto. Dopo una girandola di fusioni, apparentamenti, coperture, scatole vuote, capitalizzazioni e trasferimenti di capitali urgono gli approfondimenti al di là delle Alpi. Il 30 aprile 2009 Ticino Finanza affonda il bisturi nella piaga purulenta:

«E buonanotte ai suonatori… Arrivano Spagnoli e Italiani e se ne vanno gli Elvetici. Infatti, se aprono CMB e Santander, esce dal mercato luganese la banca zurighese IHAG. Al 31 dicembre 2008 il profitto operativo lordo di IHAG Privatbank era di 21.6 mio CHF e il profitto netto 14.6 mio. La banca impiega circa 93 dipendenti. Il personale che operava a Lugano è stato assorbito da altri Istituti, tra cui quelli aperti di recente sulla nostra piazza finanziaria. La banca, presieduta da Gratian Anda, nipote di Emil Georg Bührle, ha partecipazioni in Privatbank IHAG Zürich AG, AdNovum Informatik AG, la fabbrica d’aerei militari e civili Pilatus Flugzeugwerke AG, Hotel Castello del Sole, Hotel zum Storchen, Stockerhof Immobilien, Terreni alla Maggia SA, Private Equity Beteiligungen, Tenuta di Trecciano SA. IHAG rimane dunque in Ticino con un albergo, vini, polenta e la produzione del riso che cresce alla latitudine più settentrionale d’Europa, nel delta della Maggia. Gratian Anda siede inoltre nel CdA della Holding Barilla, in Italia che per il 15% fa capo alla sua famiglia, mentre l’azienda d’armi storica di famiglia Oerlikon-Bührle è stata ristrutturata, vendendo alcune attività e nel 2000 cambiando il nome in Unaxis. IHAG Privatbank dichiara di essere composta da banchieri “denen Sie Ihr Vertrauen schenken können” ovvero in cui possiamo credere e che è caratterizzata da uno spirito di famiglia “das Familiäre kennzeichnet unsere Bank”.

Per famiglia, si intendono forse i signori Bührle e Anda che spendono cifre considerevoli nella sponsorizzazzione di mostre d’arte della Foundation E. G. Bührle Collection nella Zollikerstrasse (Emil Georg Bührle, 1890-1956, è stato il noto produttore di armi nella Oerlikon-Contraves e fondatore della banca IHAG) e di concerti e concorsi musicali come il Concours Géza Anda. Con i tempi che corrono per il Private banking, e visti i risultati concreti di marketing e immagine di una forma obsoleta di comunicazione quale ormai è la sponsorizzazione, forse certe banche dovrebbero smettere di sviolinare e di farsi suonare da improbabili pifferai magici e mettersi a fare banca un po’ sul serio… Le banche svizzere si sono buttate a tagliare in maniera decisa i costi a causa dell’attesa contrazione di quest’anno per la crisi economica globale, il che si è tuttavia tradotto solo in chiusure e licenziamenti “diversamente confezionati”, ma sarebbe ora che si affrontasse in maniera professionale competente quella che viene chiamata da tutti ‘crisi’ che è in realtà un profondo cambiamento strutturale che esige una strategia chiara e illuminata e una politica forte. E quanto a questo, abbiamo visto come è finita con il segreto bancario…».

L’11 maggio 2009 appare sul Corriereconomia la precisazione Barilla:

«Nella tabella pubblicata a corredo dell’articolo del 4 maggio su “Barilla, cambio al vertice e ritorno all’industria”, si attribuisce alla famiglia Anda-Bührle, azionista di gafina BV, anche la proprietà della F. Relou BV. Il dato non è corretto. La catena di controllo dle gruppo è infatti la seguente: Barilla Holding e Gafina detengono, rispettivamente, lo 85% e il 15% del capitale di Finba Iniziative (in futuro chiamata Barilla Iniziative), la quale controlla direttamente o indirettamente il 100% della Barilla G. e R. Fratelli S.p.A. Più in particolare, Barilla Iniziative detiene il 50,62% del capitale della Barilla G. e R. Fratelli e il 100 % della Finanziaria Relou BV, che a sua volta detiene il 49,38% della stessa Barilla G. e R. Fratelli».

Veline? Ecco un comunicato stampa aziendale:

«Barilla, prima azienda italiana al mondo per reputazione. Il Reputation Institute assegna a Barilla il primato per la reputazione tra le aziende italiane e la prima posizione in assoluto nel settore alimentare. Parma, 25 maggio 2010. Secondo una ricerca del Reputation Institute di New York, condotta tra le 600 aziende più importanti al mondo, classificate per fatturato, Barilla si aggiudica la diciannovesima posizione tra quelle con la migliore reputazione, prima tra le italiane e prima in assoluto nel settore alimentare. I risultati della ricerca, pubblicati sul sito della rivista Forbes, sono stati ottenuti attraverso la consultazione diretta dei consumatori in 24 paesi nei diversi continenti».

Nell’ultimo bilancio ufficiale (anno 2009), il presidente Guido Maria Barilla certifica euforicamente:

“Il fatturato consolidato 2009 del Gruppo Barilla che comprende Barilla G. e R. Fratelli e Lieken e opera principalmente in Italia, Stati Uniti, Francia Germania e Nord Europa, si è attestato a 4.171 milioni di euro (…) il risultato netto evidenzia una perdita netta di 101 milioni di euro (…) il Gruppo ha confermato l’ottima solidità finanziaria derivante da una costante generazione di cassa e dal consolidamernto del debito che rimane stabile a 877 milioni di euro (…) In Italia continuiamo a mantenere un comportamento virtuoso”.

E nel resto del mondo, invece? «Lo stile – come sosteneva Pietro Barilla – è un modo di comportarsi che “implica tante cose”. Tutto ciò significa soprattutto ispirarsi a principi e valori condivisi che si richiamano al consenso».

A pagina 12 del Codice Etico aziendale è specificato:

«uno degli aspetti centrali che qualificano la condotta di Barilla è costituito dal rispetto dei principi di comportamento intesi a garantire l’integrità del capitale sociale».

Appunto, i soldi, ricevuti dalla produzione e vendita di armamenti; utili poi investiti dai soci elvetici in strumenti di morte. Armi: un’offerta di qualità che aiuta a vivere meglio dentro e fuori casa Barilla. Consigli per gli acquisti: infarinare bene le carte e negare l’evidenza. Complimenti e buon appetito.